top of page

TESTI CRITICI

Una selezione di testi critici su Marta Czok

MOTHER ROME DI MARTA CZOK Testo di Diana Alessandrini Una riflessione sulla città eterna vista attraverso l’occhio ironico e divertito di Marta Czok, artista senza radici, cittadina del mondo, la cui ricerca segue l’umanità, le sue pulsioni, i suoi vizi, i suoi contorcimenti. E, come se guardasse una Babele moderna o un cofanetto pieno di prelibate caramelle che a tutti fanno gola o un gatto sornione che si stiracchia al sole, Marta Czok osserva Roma e la dipinge. La osserva sì, ma in realtà la conosce molto bene questa città che l’ha accolta e dove ha messo radici con la sua famiglia, pur avendo scelto – o forse proprio per questo scegliendo – di viverle non “troppo accanto”. Il suo sguardo sarcastico, tradotto in una pittura di raffinata precisione, è un’istantanea. Un titolo di giornale. Un pezzo di cronaca. Un fotogramma di un film. Un racconto racchiuso in un quadro. Un racconto che non risparmia neanche i vizi della curia romana o più genericamente della Chiesa, che pure con papa Francesco sta vivendo un momento fortemente riformatore che troppo spesso deve fare i conti con una realtà consolidata nel tempo. L’ingordigia di un clero che vuole “dividersi la torta” si trasforma in un quadro di imperdibile leggerezza, graffiante ironia e dolorosa verità (Temptation, acrilico e grafite su tela , 2013). È così che l’arte di Marta Czok va controcorrente. Si stacca dalle ricerche contemporanee sull’uso di materiali e linguaggi innovativi e punta dritta dritta al recupero della tecnica e di un messaggio condiviso. E così, paradossalmente, taglia per prima il traguardo della ricerca, di una visione a lungo raggio, di una preveggenza estetico-contenutistica che troppo poco sinora le è stata riconosciuta. Ho avuto modo di scrivere per la mostra al Palazzo Sforza Cesarini di Genzano (2015) che “l’arte di Marta Czok suona la sveglia. Emoziona e lascia il segno. E dice ciò che nessuno vuole ascoltare. Il suo linguaggio è stratificato. Non solo nella tecnica, anzi nelle tecniche, che padroneggia. Il messaggio composito e la sua decrittazione sta a chi si trova davanti alla tela”. L’ho scritto e lo ribadisco. Ed è tanto più vero in questa mostra che corre sul filo della “cronaca giubilare”. Ecco il totem Roma (acrilico e grafite su tela, 2015) opera alta 2,40 metri, dipinto su tele sovrapposte: pensato site specific per il Museo Carlo Bilotti, rappresenta la Roma dei monumenti, sullo sfondo, ma anche quella delle palazzine, in primo piano. La Roma delle manifestazioni sindacali e quella del popolo dell’angelus. La Roma dei turisti e quella dei nuovi vitelloni. E giù, giù nei sotterranei, quella delle vestigia archeologiche, quella di una maestosità romana che oggi sembra essere irrimediabilmente persa. Quella maestosità che promana invece da opere come il Colosseo (Roma kaput mundi, acrilico e grafite su tela, 2010), ritratto a volo di uccello, o i volti di Cesare (Life of an average Caesar, acrilico e grafite su tela, 2011): qui la figurazione occupa solo una piccola parte delle tele per la maggior parte dominate dal grigio e da un orizzonte rosso fosco, tramonto non di un solo giorno ma di un’intera epoca. Sono le “opere della romanità” che dialogano con la Collezione Bilotti e in particolare con il nucleo delle opere di Giorgio De Chirico, esposte nella grande sala del primo piano, e tra queste certamente gli Archeologi Misteriosi ( 1926) e i Mobili nella Stanza ( 1927), ma anche l’Autoritratto con testa di Minerva, degli anni Cinquanta, in cui il pictor optimus indossa un abito veneziano, proclamando la necessità del recupero della tradizione pittorica italiana. E proprio questo fanno in fondo le opere di Marta Czok, come fossero invettive di un laudator temporis acti, documenti in cui la perfezione formale e stilistica si fonde con un linguaggio ad un tempo aulico e contemporaneo con inserti pop (come in questo What for?, acrilico e grafite su tela, 2010). Proprio questa vena di critica pop, che si ritrova anche nello spettacolare polittico che raffigura le Chiese di Roma (acrilico e grafite su tela, 2015), e che tuttavia non può non avere un forte valore simbolico, emerge con la consueta ironia e sagacia nell’arte di Marta Czok ed è protagonista delle opere esposte nella galleria dei ritratti. Ancora una volta, queste tele dialogano con la Collezione Bilotti. Qui infatti sono collocati i ritratti di Tina e Lisa Bilotti di Andy Warhol (1981), di Carlo con Dubuffet sullo sfondo di Larry Rivers (1994) e di Carlo e Tina Bilotti di Mimmo Rotella (1968). A fare da contraltare a queste opere, vengono esposti i cosiddetti “Trittici familiari” firmati da Marta Czok. Qui la pittrice si diverte a unire il “sacro con il profano”: la tradizione pittorica del grande rinascimento di Piero della Francesca e dei Duchi di Urbino con i tempi moderni del punk, appunto (Times change, acrilico e grafite su tela, 2014), realizzando una piccola indagine sociale che scandaglia non solo la nuova realtà delle famiglie ma anche delle relazioni amorose (The o-ho triptyc, acrilico e grafite su tela, 2014). Queste tele mettono in evidenza la capacità di Marta Czok di passare da un registro all’altro. E soprattutto la sua destrezza di virare dal ritratto alla caricatura. E a guardarli bene sono ritratti in senso lato anche le facciate delle basiliche romane. È il volto della Mother Rome del titolo dell’esposizione, che si caratterizza dunque per essere un percorso lungo i secoli dell’arte, della storia, del costume, alla ricerca dell’essenza di questa città, succhiata da ogni genere di sanguisughe, come mostra l’opera L’albero della vita (acrilico e grafite su tela, 2015). Una Roma-madre, derubata e dilaniata da figli senza morale. Per lei gli sguardi di un’altra madre sofferente, quella Vergine pura, eterea – simbolo di misericordia in quest’anno giubilare – che si confronta e tiene testa al buio del mondo che preme e tenta di scalzarla dalla tela (Virgin faces, acrilico e grafite su tela, 2010).

ANTOLOGICA DI MARTA CZOK Testo di Guerrino Mattei per Rinascita Curata da Laura Cavallaro nella spettacolare cornice del restaurato castello di Calatabiano in provincia di Catania si è aperta la mostra antologica della pittrice polacca Marta Czok. Dal 19 luglio al 7 settembre 2014 sono in parete quadri che visivamente avvalorano le sue parole quando dichiara che non ha mai riflettuto sulla sua personalità artistica: “Non sono sicura di averne o di volerne una”. In rassegna le opere dialogano in modo surreale con le cose quotidiane, conservando quei piccoli segreti che la vita riserva ai comuni mortali, pregni di poesia e altre volte gonfi di una drammaticità che soltanto il vivere può offrire e malinconicamente regalare. Alla vernice era presente, oltre alla curatrice e alle autorità regionali e locali, il direttore del MacS (Museo Arte Contemporanea Sicilia) Giuseppina Napoli che ha aperto l’evento con parole scevre da ogni circostanza, offrendo al pubblico una chiave di lettura originale quanto sapiente: “Con acuta ironia e delicata poesia – annuncia la dott.ssa Napoli – Marta Czok raffigura nelle sue opere lo scorrere della vita. Sulla tela prende forma la messinscena dell’umanità e l’artista, da regista consapevole ed illuminata, lascia intuire cosa si nasconde dietro le luci del palcoscenico”. Nata in Libano nel 1947 da genitori polacchi, giovanissima si trasferisce a Londra e si muove nel mondo fino in Italia. Marta è una viaggiatrice, nei luoghi e nei tempi. La sua pittura è un’indagine culturale, quasi antropologica, dell’umanità. “L’artista riesce a coniugare il suo sentire identitario con la forza espressiva della figurazione, stimolando così la comunicazione e la partecipazione sensoriale dello spettatore che diviene esso stesso metafora satirica del sistema sociale in cui vive e domina o, al contrario, dal quale è dominato”: così annota Laura Cavallaro in “L’estetica dell’esistenza nei dipinti di Marta Czok”. La mostra è superbamente allestita, indubbiamente bella e preziosa, e quel che più conta unita stilisticamente. La pittrice rivela una forte personalità in contrasto con quanto a bella posta, crediamo, enuncia con le sue parole di rottura, quasi sempre anticonvenzionali: “Non sono come quei pittori che si travestono per sembrare ‘artisti’. Tutto quello che sono è nei miei dipinti, quindi non sento il bisogno di apparire o parlare come un ‘artista’. Immagino che sotto sotto sono una rivoluzionaria e la mia battaglia è contro il ridicolo abuso di potere, che sia per mano dello Stato o della Chiesa, ed è tutto nei miei dipinti, anche se a volte lo inserisco in modo cauto e delicato”. Nelle sue annotazioni si leggono ancora parole di monito: “È vero, nessuno oggi viene bruciato sul rogo, ma cosa potrebbe accadere domani? Vorrei che le persone che guardano i miei dipinti si divertissero, si sentissero più potenti e mai sole. Ci sono molte persone là fuori che la pensano come me ma non hanno né il tempo né l’occasione per dire la loro. Spero di essere la loro portavoce, anche se solo sulla tela”. La responsabilità dell’artista è dare al suo pubblico qualcosa che valga la pena possedere. Bisogna ricordare che la gente è intelligente e perspicace e che l’arte non diventa arte solo perché lo dice l’artista. Non basta appendere qualcosa in una galleria e illuminarla per bene per trasformarla in arte: “sarebbe come prendere in giro quelli che vengono a vedere questi lavori”. La vera arte fa crescere l’anima del pubblico e “una scopa illuminata, per quanto costosa e per quanto lodata da critici e curatori di musei non riuscirà mai a farlo”.

L’ESTETICA DELL’ESISTENZA NEI DIPINTI DI MARTA CZOK Testo di Laura Cavallaro Dipingere l’esistenza, così come raccontarla, significa accettare di essere costantemente attratti da una molteplicità di visioni, da una fonte inesauribile di fatti, azioni e personaggi che si incontrano o si cercano sul palcoscenico della vita. Significa fare della propria mente un laboratorio alchemico in cui sentire, silenziosamente o rumorosamente, quell’imminente apparizione che si presenta a noi quando siamo pronti a (ri)conoscerla ed a (ri)conoscerci con essa. Significa accettare che quanto abbiamo dipinto ha un peso, ancor più aggravato dalla sua riconoscibilità. Marta Czok dipinge l’esistenza. Il suo occhio, come un’implacabile lente d’ingrandimento scruta scene di ordinaria quotidianità; la sua mano, strumento coraggioso, le fissa rigorosamente sulla tela, strappandole, per salvarle forse, all’aberrante consuetudine di uno sguardo che non vede e che, inesorabilmente, è costretto all’abitudine. Illustrazioni apparentemente semplici, ingenue, naif, senza superflui orpelli ma agghindate solo da una sana ironia e dal fascino di reminiscenze talora medievali e fiamminghe, talora di ascendenza anglosassone. Vignette spesso sfuggevoli ed inafferrabili nei temi che si svelano solo a chi ha la stessa smania di comprendere e non ha paura di scoprirne i significati. Significati raccontati con l’urgenza di comunicazione di chi vive il contemporaneo ma parla di fatti senza tempo, attuali ed attualizzati, come se li sussurrasse all’orecchio. Quello di Marta Czok è un mondo di personaggi e cose visitato dapprima dentro di sé, alla stregua di un sogno, di un’epifania generata dall’ecclettica fantasia di un’artista bambina e rivisitato, poi, dalla sensibilità e dal vissuto di una donna che la vita ha forgiato artista adulta e matura. Di origini polacche, venuta al mondo nel 1947, Marta Czok riesce a coniugare il suo sentire identitario con la forza espressiva della figurazione, stimolando così la comunicazione e la partecipazione sensoriale dello spettatore che diviene esso stesso metafora satirica del sistema sociale in cui vive e domina o, al contrario, dal quale è dominato. Così, questa mostra antologica di Marta Czok racchiude opere come “Un Napoleone qualsiasi” (1991), “The cake makers” (2004), “Robot” (2007), “Miracle solution” (2012), circa un ventennio, o poco più, di produzione artistica, in cui descrivere una molteplicità di istanti, immagini e significati, di intimità e di universalità. Un repertorio in cui il tratto preciso dell’acrilico e dell’olio si sposa con il segno più nebuloso del carboncino e della grafite, in cui personaggi dai volti ilari, dalle espressioni stranite e dai corpi torniti e pieni, convivono con più magre e seriose figure ed in cui lo spazio si fa, per vuoti e pieni, ma in esso ogni cosa vi trova il suo posto. Marta Czok dipinge l’esistenza ed il suo sentire è in mezzo. È lungo quel labile confine tra esistenza e non-esistenza, tra reale ed irreale, tra metafisiche e metaforiche realtà e potenti aneliti di denuncia e di speranza. È lungo quel confine che siamo anche noi, spettatori, straniti e consapevolmente straniati dal dispiegarsi davanti ai nostri occhi di un’opera d’arte.

LA LUCIDA IRONIA DI MARTA CZOK Testo di Barbara Codogno Ci sono, a mio avviso, molti modi per approcciarsi al mondo pittorico di Marta Czok. Se guardiamo alla sua produzione figurativa da un punto di vista esecutivo-formale, ci troviamo di fronte al tratto distintivo del suo intervento pittorico, contraddistinto da una sobrietà quasi minimalista del colore, da un’armonia calibrata, direi quasi aurea, tra i vuoti – le campiture monocromatiche – e i pieni figurativi, dall’ammicco grafico che nella Czok declina quasi verso l’illustrazione, dall’abilità del saper fare testimoniato dalla molteplicità di tecniche usate. Avventurandoci invece nel tentativo di tradurre il poliedrico contenuto simbolico che abita il mondo figurativo di Marta Czok, il percorso di analisi critica si fa più complesso, profondo, pesante e inerpicato e, paradossalmente, anche più… veloce e leggero. Non c’è una volta che i quadri di Marta Czok non mi strappino un sorriso. Di quei sorrisi a denti stretti, un sorriso compiaciuto che nasce dal riconoscere sempre in lei un’intelligenza vivace, acuta, in grado di creare un pirotecnico cortocircuito. Perché l’ironia, da sempre tratto distintivo dell’autrice, non è il mero evidenziare i non sense, quelle idiosincrasie morali e culturali che digeriamo in virtù di un possibile tornaconto. No, la faccenda è molto più seria. Marta Czok è intellettualmente iconoclasta, o meglio, la sua è un’intelligenza trasversale e libera che sa cogliere il paradosso, il grottesco, il sublime, lo scandaloso nella semantica simbolica del linguaggio. Non paga di aver colto con il suo occhio vigile e profetico, ci mostra lo sberleffo e lo fa prima di tutto con il suo grande talento artistico, poi con il suo deflagrante acume intellettuale. Perché Marta è iconoclasta? Ad esempio perché rompe gli schemi del politically correct in ambito filologico ed epistemologico. Nel suo ripercorrere un tema – abusato e presuntuoso – come la storia, Marta porta la sua freschezza e la sua leggerezza ponendo sullo stesso piano la storia e la favola. Mescola i tempi storici con i tempi mitici e favolistici con una grazia che lascia basiti. Che dire, ad esempio, quando dal Cavallo di Troia, invece di Ulisse, fa irruzione Pinocchio in Pinocchio on a Trojan horse? Czok vive nella contemporaneità e ama attualizzare il tempo storico: ecco allora un’ultima cena diventare una grigia in Last Supper. Fotografia sociale in cui è facile riconoscere la solitudine post borghese; laddove il tozzo di pane non è più elemento religioso eucaristico ma diventa conflitto economico simbolico. La cifra su cui si ci scanna: per un tozzo di pane, appunto. Un agire e un pensare estremamente femminile, quello di Marta Czok, artista che insegue le intuizioni quasi fossero luci, scie luminose che tutto attraversano e senza alcuna soggezione. Il potere non è un deterrente, anzi, Czok lo smaschera: è grottesco, volgare. Tragico. Meglio volgere lo sguardo altrove. E se la fiaba fa ancora capolino con i dipinti Rapunzel e The frog prince, a fianco della rassicurante casa dei giocattoli troviamo però la Fatina Stufa: una fatina azzurra che tenta di strozzare Pinocchio. Come darle torto? Quanta pazienza con tutti questi bugiardi! In queste vere e proprie irruzioni sceniche, Czok si muove come un regista, da sceneggiatrice di possibili altri mondi. In questo senso interagisce con deviazioni sceniche non soltanto sul tempo storico e sul tempo mitico, ma interferisce creando un altro mondo, quello dell’impossibile. In questa prospettiva la fatina azzurra fa da apripista per la lettura di sue opere come “altre possibilità”: in Note for Leo abbiamo la Monnalisa che viaggia nel tempo e ci mostra un volto e una acconciatura di una donna che potrebbe appartenere all’epoca moderna. Così anche per Madonna, dove l’immagine iconica si moltiplica fino a irradiare di sacralità tutto il femminile. La sua produzione è così ardita che tange l’allegorico e il caricaturale: Un Napoleone qualsiasi è l’allegoria dei tempi moderni che Czok dipinge impietosa, senza concedere nulla: né alla critica né alla retorica tanto meno al sentimentalismo spicciolo. Soprattutto quando approda a temi “pericolosi” come gli eccidi, i genocidi, la guerra. In questo suo procedere asciutto e rigoroso sta, a mio avviso, la potenza espressiva della pittrice. Eppure, come dicevo, non c’è una volta che Marta non riesca a strapparmi un sorriso. Perché è così irriverente, o forse dovrei dire così onesta e così coraggiosa, da inglobare anche se stessa nella feroce critica, impietosa. Mi piace chiudere questo mio breve scritto con l’immagine che meglio di tutte riassume la straordinaria e lucida ironia dell’artista: una massaia, forse una cameriera, una donna piuttosto grassa e dall’aria truce (quando la guardo mi viene in mente una macellaia)… ecco, la donna si gira verso un ipotetico interlocutore fuori campo e fumettisticamente esclama: “You call that Art?” E il sorriso a denti stretti scroscia in una cristallina risata.

COMMENTO SOCIALE: I DIPINTI DI MARTA CZOK Testo di Jill Smith per NY Arts Magazine L'atemporalità può essere tradotta come la qualità di essere eterni, senza età, immortali o non influenzati dal tempo. Questo senso di tempo perpetuo è evidente nell'opera perspicace di Marta Czok. Nei dipinti di Czok c'è un senso di profondo mistero mentre le figure sono incorniciate da tele adiacenti a tinta unita. Queste tele adiacenti creano una qualità cinematografica che distilla il tempo ed evoca una sensazione di sospensione. Questo vuoto sospeso, per così dire, permette un palcoscenico o una piattaforma in cui le figure recitano una pletora di espressioni umane. L'opera di Marta Czok evoca un mondo pieno di meravigliose intuizioni sulle molte sfaccettature dell'umanità. Il modo in cui illustra le torri, le macchine, i manichini e la figura umana è evocativo e avvincente. Ogni dipinto ricostruisce una narrazione che ha specificità ma anche fascino universale. Con ironia, arguzia, satira e calore crea opere che toccano sentimenti personali e politici con grande intensità. Czok è nata a Beirut, in Libano, nel 1947 e ha un background multiculturale essendo britannico/italiano di origini polacche. I suoi primi anni di vita la portarono a spostarsi abbastanza frequentemente. I suoi genitori polacchi si trovavano in Medio Oriente dopo essere riusciti a fuggire dall'URSS dove erano stati prigionieri dei sovietici. Quando Czok era una bambina, la sua famiglia si trasferì nel Regno Unito, dove ricevette la sua educazione formale. È interessante notare che è stato più tardi nella vita che ha trovato la sua voce come pittrice. Afferma: "Mi sono dedicata alla pittura dopo aver terminato i miei studi al Central St. Martins College of Art and Design di Londra, dove ho frequentato un corso di laurea in moda e tessuti. Infatti, al mio arrivo in Italia nel 1974, ho lavorato per qualche tempo come stilista di abiti per varie case di moda ed è stato solo quando è nata mia figlia e ho visto il mondo per la prima volta com'era realmente e non come speravo che fosse, che ho finalmente abbandonato del tutto il lavoro di disegnatore e mi sono concentrato a tempo pieno sulla pittura". Questo punto di svolta è incredibilmente significativo in termini di processo di pensiero. Il lavoro di Czok ha una relazione diretta con il suo mondo immediato. Quando le sue proposizioni formali sono poste l'una contro l'altra, formano un compendio visivo di pensieri e riflessioni di un particolare momento nel tempo. Prendiamo ad esempio il suo lavoro intitolato Tank. Al centro di questa tela di medie dimensioni si trova un carro armato splendidamente reso ma enormemente minaccioso. Su entrambi i lati della tela ci sono tele adiacenti che sono state appoggiate alla tela centrale. Sul lato sinistro ci sono due tele piatte colorate, entrambe di un rosso cremisi intenso e sull'altro lato di un azzurro pallido. Sotto il serbatoio c'è una lunga fascia orizzontale di colore grigio chiaro. Al centro di questa distesa grigia si trova un piccolo ritratto fotografico di una giovane ragazza su una bicicletta d'epoca. Una freccia collega l'immagine della ragazza e del carro armato in modo dialettico. Collegando in questo modo questi cinque pannelli e le immagini più disparate, Czok ci implora di leggere questo dipinto in modo sincronico e diacronico. I pannelli rossi sembrano simboleggiare i residui della guerra, ovvero il sangue e la morte. Il pannello opposto, di un azzurro pallido, ispira un po' di speranza, suggerisce il potenziale per la pace. Le immagini al centro evidenziano due modalità di trasporto, due macchine con equipaggio. Una macchina, il carro armato, è fatta per la distruzione e la guerra, l'altra, una bicicletta, per il divertimento e il transito. Il carro armato di Czok, in tutti i suoi raccapriccianti dettagli, è una manifestazione barocca del potere. Ha anche reso l'immagine in tale complessità, attirando lo spettatore all'interno della sua ingegneria meccanica. Una cacofonia di ingranaggi, mandrini, pistoni e pistole funge da viscoso promemoria del suo potenziale. Al contrario, la ragazza in bicicletta è una rappresentazione simbolica di ciò che la guerra distrugge, in particolare l'innocenza e la libertà. Se messa in parallelo, l'immagine più sottile, quella della ragazza, è in realtà la più potente. Il dipinto di Czok ci mostra anche come le priorità culturali occidentali siano fuori luogo. I paesi spendono trilioni di dollari per aggiornare ed espandere il loro vantaggio militare, ma spesso a spese del loro bene più prezioso, l'umanità. Pensando a questo dipinto non ho potuto fare a meno di ricordare le conseguenze dell'Olocausto. Czok ha affrontato questa tragedia in un recente lavoro. Per circa tre anni dedica una serie di dipinti ai bambini durante la guerra e l'olocausto. La mostra che ne è scaturita è già stata esposta a Roma e Padova ed è prevista per Ferrara nel 2012. All'indomani dell'Olocausto, molti dei sopravvissuti cercarono rifugio nei campi profughi messi a disposizione dalle potenze alleate. La ragazza raffigurata in questo dipinto potrebbe essere uno di questi sfollati, uno degli innumerevoli individui che sono stati vittime di atrocità. Con incredibile tensione, l'opera commovente di Czok incarna lo spostamento che avviene attraverso un'aggressione non necessaria, ricordandoci che lo spostamento non è solo fisico ma anche psicologico. Una conclusione che possiamo trarre da questo lavoro e da altri è che Czok è un realista. Afferma: "Il mio scopo principale era, se non quello di salvare il mondo, almeno quello di dire a tutti ciò che, esattamente, ne pensavo – e quale modo migliore se non attraverso la pittura?" E sembrerebbe che la pittura sia un mezzo che le si addice bene. In un'altra opera, intitolata Historians, Czok crea un arguto commento sulla storia e sul nostro insaziabile bisogno di canonizzarla, registrarla e documentarla. Basato sul dipinto di Peter Bruegel il Vecchio intitolato Il cieco che guida il cieco, (1568); Czok utilizza una tavolozza grigia in quest'opera e incorpora due pannelli che formano un tavolo o un palcoscenico poco profondo. Cinque uomini che indossano berretti da dunce formano una festa umoristica. In fila, si tirano l'un l'altro verso il bordo della piattaforma. Dal bordo più lontano della tela, la festa sembra scomparire nello sfondo grigio e ammorbidito. Man mano che la banda si avvicina a noi, i loro contorni diventano più definiti e lineari. Sul bordo del palco c'è il leader del partito che assume felicemente la posizione di saltare nel vuoto sottostante. Sorride mentre una freccia punta verso il nulla, con la scritta "ciao di nuovo". Qui, la storia sta letteralmente per ripetersi, poiché questo raggruppamento sembra essere il cieco che guida il cieco. Incuranti, smarrite e quasi allegre, le figure sono le controfigure archetipiche di tutta l'umanità. Anche nei loro mantelli e nel loro abbigliamento formale sembrano avere un certo orgoglio, ma i loro berretti da dunce smentiscono la loro falsa sicurezza. Ancora una volta, Czok crea uno splendido tableau pieno di figure squisitamente rese. Il suo uso di una tavolozza tenue mette in risalto le narrazioni che crea; Ci permette di mettere a fuoco il suo punto di vista in modo molto diretto. Molto spesso la storia è scritta da chi è al potere e distorta per adattarsi alla retorica ideologica. Czok mostra questi personaggi, per come sono realmente, individui autoproclamati senza alcuna idea di dove siano stati e dove stiano andando. Con questo pezzo, non ho potuto fare a meno di riflettere sull'idea che la civiltà occidentale spesso continua a progredire tecnologicamente a spese del nostro ambiente attuale. Di solito siamo troppo immersi nel fango di una situazione prima di fermarci a considerare la sua traiettoria e l'effetto dei nostri cosiddetti progressi. Il filosofo e critico culturale Jean Baudrillard sostiene che la società occidentale, in particolare, è di fatto uscita dalle grandi narrazioni della storia. Egli sostiene che non siamo più partecipanti attivi nel plasmare la società verso un obiettivo finale più ampio. Tuttavia, sente anche che siamo incredibilmente consapevoli di questo fatto. A causa della globalizzazione, la nostra comprensione allargata dell'umanità significa che continueremo a recitare un finale illusorio in modo iper-teleologico – recitando la fine della fine della fine, all'infinito. Nella pittura di Czok questo palcoscenico tragico-comico è una metafora della nostra propensione a mettere in scena la fine e l'inizio senza un senso di direzione ultima. Il dipinto più personale e forse più intimo di Czok si intitola La bella addormentata nel bosco. Questo dipinto è diviso in due sezioni, una di un grigio intenso, l'altra di un grigio pallido e biancastro. Nella metà inferiore di quest'opera, una figura maschile riposa pacificamente. La delicatezza con cui questo dipinto è reso è notevole. Le pieghe bianche del letto hanno una bella qualità traslucida resa in modo abile e pittorico con ampie pennellate. Da una prospettiva aerea, osserviamo questo ambiente intimo da un punto di vista più alto. In quest'opera lo spettatore può quasi individuare l'ora della notte, sembra essere prima delle 4 del mattino, quando l'alba di solito inizia a girare lentamente la testa. C'è un incredibile senso di familiarità che Czok ha con il suo soggetto, evidenziato dalla delicata applicazione della vernice e dalla stretta vicinanza. Il titolo è anche un indicatore del sentimento che lei pone in relazione al dormiente. In quest'opera meravigliosamente sensibile, Czok trasmette un messaggio struggente di vicinanza, calore e affetto. Vengono in mente i languidi amanti addormentati o i nudi solitari di Egon Schiele. Eppure, al contrario, l'opera di Czok non ha una connotazione erotica. Piuttosto, questo ritratto è un'opera devozionale che trasmette un senso di profondo affetto. Mentre guardavo questo dipinto, mi è venuto in mente "A volte con uno che amo" di Walt Whitman. In essa egli afferma A volte con una persona che amo mi riempio di rabbia per paura che effondo amore non ricambiato, Ma ora penso che non ci sia amore non ricambiato, la paga è certa in un modo o nell'altro, (Ho amato ardentemente una certa persona e il mio amore non è stato ricambiato, Eppure da lì ho scritto queste canzoni.) Amore compiuto o non corrisposto, la ricompensa sta nell'aver amato e nella bellezza condivisa. In quest'opera è chiaro che Czok è un realista ma romantico. Vuole che le sue opere abbiano determinate qualità che suscitano pensiero e riflessione. Quando prestiamo attenzione, certi messaggi risuonano a livelli profondi. Afferma: "Voglio che il mio lavoro abbia una qualità estetica, che un'opera d'arte abbia un significato, che un'opera d'arte debba 'parlare'. Infine, e soprattutto, un'opera d'arte deve ispirare lo spettatore a camminare più in alto, ad essere più gentile, ad avere più pietà, a non perdere la speranza". Questo dipinto di Czok trasmette un forte messaggio del legame che due persone creano e ci ispira ad amare più pienamente. Marta Czok ha creato una spettacolare opera di dipinti utilizzando colori tenui e tenui che creano interessanti giustapposizioni in combinazione con il suo dettagliato lavoro a grafite. L'uso di diversi pannelli e spazi negativi incoraggia lo spettatore a vedere i suoi dipinti come narrazioni cinematografiche. L'opera di Czok è composta da espressioni stimolanti di importanza politica e personale. Ognuno dei suoi dipinti trasmette una storia avvincente che mette in evidenza singoli momenti di percezione in modo visivamente sbalorditivo.

L’IDENTITÀ NEGATA: ARTE SUL FILO DELLA MEMORIA Testo di Cesare Terracina Dopo Guernica di Pablo Picasso, grido d’orrore dipinto nel 1937 immediatamente dopo il bombardamento aereo della città basca e simbolo profetico di un’umanità crocifissa, la risposta dell’arte agli orrori perpetrati dall’uomo verso l’uomo e verso la Natura è apparsa intrisa di drammaticità espressiva, rasentando il muro altissimo e desolato che aveva, con la guerra, racchiuso la storia in un confine interiore che non poteva offrire vie d’uscita estetiche. Certamente, la drammatica esemplare risposta informale di Fautrier, l’innocenza crudele della carne materica dei suoi Otages, bene pose gli artisti in guardia da una festa dell’arte, dimenticando le tracce dei passati orrori in favore di una risorta gioia di vivere. Come la resurrezione di uno spirito senza forma, che penetrava il disordine espressivo opposto al Realismo di matrice politica, o il bacino errante del popolo umano che in Chagall vedeva l’Esilio del Creatore, ponevano la mente allertata verso un’espressività tesa nella riflessione interiore. Erranza dell’arte e sconfitta, di fronte alla necessità di mostrare o esprimere senza furor politico e a fresco la densità dell’immane tragedia tangibile nelle macerie ancora avvolte di brina di morte. È stata la sedimentazione lenta e il costante lavoro dei sopravvissuti a edificare il più significativo monumento all’Olocausto, un testamento vivente fatto di volti, di fatti e di parole che hanno abbattuto la scia di silenzio lasciata da un muro teologico insufficiente a offrire risposte. Così è cresciuta generazione dopo generazione, una nuova umanità che ha ritrovato il colore della vita, espiato il peccato dell’idolatria politica e che nella memoria ha ritrovato la strada seppure drammatica di conoscere, capire e insegnare a vivere nel ricordo di tutti coloro che in ogni epoca della storia sono stati marchiati e cancellati da incomprensibili ragioni ideologiche. Il problema della relazione arte-memoria ha il suo cuore nel nucleo più profondo della storia. E qui si rivelano i suoi percorsi velati come il suono dei versi poetici, rarefatto dissolversi nella memoria di quanti mancano all’appello: pesanti come le foglie/facce metalliche di Menashe Kadishman, insensibili alla aerea natura del vento, forgiate e adagiate nell’identità dello spazio minimale ferrigno berlinese di Libeskind. Un silenzio eternale animato da ri-flussi di angoscia, quello del visitatore della storia. Indescrivibile orrore che ha visto, ma non vissuto. Marta Czok pone una condizione diversa a chi accosta le sue testimonianze interiori. Nella sua pittura si avverte un richiamo al mondo irrecuperabile di chi perse la favola della vita nel momento in cui l’immaginazione è la stupita essenza della vita quotidiana. Un battito d’ali che frulla nel senso tragico della perdita della condizione labirintica e creativa dell’aurorale dimensione dell’infanzia. Attualità tragica nel nostro immediato presente, quando più veloce appare la dissipazione del patrimonio immaginativo ben presto cancellato da una razionalità invasiva e aggressiva che abbrevia le distanze fantastiche, correndo verso le certezze del ruolo sociale. Il percorso espressivo di Marta Czok, costruito su un gioco di identità linguistiche come la sua biografia, libanese-polacca-anglo-latina, attraverso l’ironia espressionista ereditata dal mondo fiammingo, suggellata da una sottile capacità di segno grafico, si rivela in un costante gioco speculare di immagine sottratta alla sua fonte originale. Un dialogo del pensiero che acquista la forza in essere dell’evidenza, rarefacendosi sino a materializzarsi in una forma sfuggente: questa la cromia iniziale dell’infanzia nello spettacolo spettrale di un mondo in bianco e nero. È lo stupore che leggiamo negli occhi dei bimbi mentre costruiscono il loro mondo di fiaba, in cui sempre un’ombra sinistra da lanterna magica, allunga la notte, come nei fotogrammi di Bergman, immagine di una paura sopita ma vigile, traccia di una memoria lasciata alla deriva. Ed è l’aspetto seriale delle immagini che, aspirando a una crescita che si interrompe ogni volta, naufraga in un silenzio implosivo che non lascia spazio all’emozione. È una secchezza stilistica da racconto kafkiano, un’attesa di risposta che non arriva ad alcun compimento. E ci rendiamo consapevoli che siamo a contatto con l’involucro più interno dell’arte, elaborazione visiva di un pensiero che riflette nella durezza delle certezze il drammatico risvolto di una traccia della memoria collettiva. La cancellazione dell’identità è il filo sottile che lega la memoria della storia dell’infamia, come non mai perpetrata nell’ultima guerra nazifascista. Cancellazione psicologica dei recenti passati regimi sovietici, oppure avversione per l’identità stessa, normalizzazione teologica da società ideale, crociate avviate contro l’espressione spirituale e legale di sé: da tutto questo ci fissa ancora lo sguardo della denuncia immota dei bambini dei lager e del ghetto di Varsavia, come della Roma Città aperta silenziosa e sofferente all’ombra di una croce immensa, imbrunita dalla melma del fascismo. Memoria che stride sul vetro raschiato tracciando un messaggio di angoscia trascritto nell’invisibilità immensa della morte. Ciò che appare dalle opere di Marta Czok è l’essenziale cifra grafica necessaria all’espressione di una delicata verità, messa a contatto con un mondo visitato dentro di sé, attraversando il riflesso inafferrabile della memoria. Strutture che parlano dell’istante in cui ogni senso scompare assieme alla vita negata, dall’attrezzo di guerra alla doccia al cianuro, trionfi eretti sul limite posto alla crescita libera, in cui l’amore per il mondo che l’infanzia ha in sé lascia il posto all’inesprimibile sgomento della solitudine. Mai sconfitto, il sogno di vivere e di crescere riappare. Torna alla mente la storia di Brundibar l’operetta praghese in musica scritta nel 1938 da Hans Krása su libretto di Adolf Hoffmeister ripresentata dopo varie vicende alla Croce Rossa il 23 giugno 1944, dai nazisti a Terezìn per mostrare il “programma di abbellimento” o come in un documentario qui realizzato, la benevolenza del Führer che “regala una città agli ebrei”, assieme alla munificenza nazista verso l’infanzia, che si rivelerà nello sterminio ad Auschwitz di tutti i musicisti e gli interpreti. Saranno l’alleanza di un gatto, di un passerotto e di un cane e l’aiuto di tutti i bambini della città che interverranno in favore di Annika e Pepíçek, intenti a cercare latte per la mamma ammalata, a sconfiggere l’infido mendicante suonatore d’organetto Brundibar, personaggio che lascia bene intendere dove si cela l’infernale progetto di asservimento al lavoro e alla morte. La mamma fa dormir il caro suo tesor, la culla dondola pensando al suo amor. Poi verrà il giorno quando il bell’uccellin se n’andrà, volerà, lascerà il suo nido. Gli alberi crescono, nuvole corrono, gli anni in fretta passano. Mammina, guardaci, siamo cresciuti ormai. Pensa, rammenta i vecchi tempi se vorrai. Il bagnetto facevam, nel mastello eravam: un bambin sì piccin e la sua sorella. Gli alberi crescono, nuvole corrono, gli anni in fretta passano. La mamma avanti va, vuota la culla sta, pensa al futuro quando nonna poi sarà. Un vuoto che non lascia rimpianti tanto è reale e tangibile la memoria dell’identità immediata legata all’assenza di futuro. Non solo nella morte, ma specialmente nel trauma di continuare a vivere, come sopravvissuti e testimoni. In questa identità di memoria crediamo sia sotteso uno dei sensi dell’arte: poesia, arte figurativa, musica che non allieta le corti di potenti e tiranni, ma che vela sotto un rimando infinito la silenziosa musica segreta che anima la vita, anche se al di là della vita. Così come ha scritto il grande direttore d’orchestra Karel Ancérl internato e sopravvissuto a Terezìn: “Ho sperimentato che la potenza della musica è così grande da poter portare nel suo regno qualunque essere umano che possieda un cuore e una mente aperta, da rendere possibile sopportare le più terribili ore della propria esistenza”.

LA PSICOLOGIA INFANTILE NELLE OPERE DI MARTA CZOK Testo di Vittorio Mathieu La psicologia infantile è la protagonista di questa raccolta di dipinti di Marta Czok; il dolore collettivo ne è solo il sottofondo. L’infante ha famigliarità con il dolore fisico, ma il suo timore non è di soffrire, bensì di essere abbandonato. Attribuisce la causa del dolore fisico, oltre che a sé, a tutto il mondo che lo circonda e che si distingue da lui progressivamente. Dolore e piacere, in particolare tattili, sono il suo mezzo di comunicazione con il mondo, un mondo animato. Messaggi molto circoscritti di gradimento, di semplice informazione. In una coda alla cassa di un supermercato ho visto un bambino dare lievi calci alla madre per indurla a passare più in fretta, ed esortarla a far lo stesso con la cliente davanti, in modo che anche quella non indugiasse. Una sofferenza atroce, immotivata e collettiva, quali quelle che ci presenta la storia, esula da ciò che un infante si immagina, mentre una certa crudeltà commisurata alle sue deboli forze può servire a manifestare un’intenzione ostile, ma non assumere i tratti della ferocia. Accadde a una signora di difendere un bambino molto piccolo dalle percosse che alcuni, più grandicelli, gli stavano dando; e di domandar loro perché lo facessero. La risposta fu letteralmente: “perché ha tre anni”. Sottointeso: “… e pretende di giocare con noi, come se fosse un nostro pari”. Una pretesa di superiorità nasce spontaneamente (sebbene non inevitabilmente) in un giovanissimo, via via che si accorge che il mondo esterno è distinto da lui, e delude il suo infantile delirio di onnipotenza. Ma nella maggior parte dei casi questa esperienza non ha esiti distruttivi; anzi, sfocia dapprima in una ricerca di compagnia (anche immaginaria), poi in una esigenza di eguaglianza di fronte a una legge comune, infine in quella “insocievole socievolezza” sociopolitica, di cui parlava Kant. Il vedere questa naturale evoluzione in contrapposto allo sterminio del diverso, che contraddistingue molte società “civili”, conferisce all’arte della Czok una tragicità tanto più atroce quanto meno conclamata. Questo esito possibile e terribile della storia fortunatamente si va facendo oggi più raro, combattuto da istituzioni apposite, che vorrebbero far passare tutta l’umanità da una società “chiusa” a una società “aperta”. Il cammino, tuttavia, è lento e i successi circoscritti. Ma è consolante che chi si occupa del problema a livello politico si accorga di una artista che lo studia nelle fisionomie di bambini ancora inconsapevoli che, pure a distanza di qualche decennio potrebbero trasformarsi in aguzzini o vittime gli uni degli altri. L’arte è rivelativa e, svegliando l’opinione pubblica, potrà imprimere alla storia una direzione opposta a quella che tanta parte dell’umanità ha percorsa nel secolo XX; in parte cospicua percorre ancora.

bottom of page